In collaborazione con Airalzh – Associazione Italiana Ricerca Alzheimer Onlus.
Intervista al prof. Sandro Sorbi, Presidente Onorario Airalzh Onlus, Professore Ordinario di Neurologia dell’Università degli Studi di Firenze, Direttore Neurologia I dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze.
La malattia di Alzheimer (AD) rappresenta la prima causa di demenza a livello mondiale, rappresentando il 60-80% dei casi. La prevalenza aumenta dall’1% nei soggetti di età compresa tra 65 e 69 anni a circa il 30% negli individui di età superiore agli 85 anni, portando a più di 50 milioni di individui affetti in tutto il mondo.
Come si diagnostica l’Alzheimer? Come riconoscerlo precocemente?
L a demenza, in generale, viene diagnosticata nelle persone che presentano disturbi cognitivi abbastanza gravi da interferire negativamente con le attività della vita quotidiana della persona. La diagnosi di demenza dovuta alla malattia di Alzheimer si basa sui criteri che sottolineano l’importanza del deterioramento della memoria accompagnato da altri disturbi cognitivi, come caratteristica clinica distintiva dell’AD.
Negli ultimi decenni, è diventato chiaro che nel cervello la presenza della sofferenza patologica causata dalla malattia di Alzheimer può essere presente anni prima della comparsa dei sintomi di demenza ed è diventato chiaro che i deficit cognitivi che accompagnano la malattia di Alzheimer si evolvono gradualmente.
Inoltre, la malattia di Alzheimer può manifestarsi con presentazioni clinicamente atipiche, come disturbi del linguaggio prominente, disturbi visuospaziali o della funzione esecutiva.
Pertanto, si è resa necessaria una distinzione tra le espressioni cliniche sindromiche della malattia e il processo fisiopatologico che è alla base della sindrome.
Il riconoscimento che la neurobiologia sottostante alla malattia di Alzheimer inizia diversi anni prima della comparsa dei sintomi clinici o delle menomazioni della funzione ha portato a nuovi criteri diagnostici che includono diversi stadi della malattia fra i quali il “lieve deterioramento cognitivo (MCI) dovuto ad malattia di Alzheimer” (MCI-AD) e la “demenza dovuta da Alzheimer”.
Questi criteri hanno introdotto il nuovo concetto che il processo patologico correlato all’AD e il danno cerebrale potrebbero essere rilevati in vivo mediante valutazione di biomarcatori che consentono il riconoscimento e la definizione di stadi pre-demenza sintomatici (MCI) e anche asintomatici della malattia e per differenziare la malattia di Alzheimer da altre forme di demenza.
I biomarcatori includono parametri di laboratorio e di neuroimaging, quali:
- dosaggio di Abeta42, tau e fosfo-tau nel liquido cerebrospinale (CSF);
- evidenza di ipo-metabolismo in specifiche aree cerebrali, quali il cingolato, precuno posteriore e temporo-parietale alla PET 18F-fluorodeossiglucosio (FDG);
- evidenza di atrofia temporale mediale sulla risonanza magnetica (RM) ad alta risoluzione;
- studio della captazione corticale dei ligandi amiloidi sulla tomografia ad emissione di positroni (PET).
Altri strumenti di indagine, quali lo studio della captazione corticali di legandi TAU alla PET, sono in fase di validazione.
Lo studio neuropsicologico, con test validati per la popolazione italiana, rimane la modalità essenziale per caratterizzare i disturbi cognitivi e differenziare le varie modalità di espressione clinica della malattia di Alzheimer e distinguerla dalle altre forme di demenza.
Infine, in soggetti con alta familiarità è possibile effettuare indagini genetiche mirate ad identificare mutazione in geni causativi della malattia, quali il gene della presenilina 1, presenilina 2 e Precursore dell’Amiloide (PS1, PS2, APP).
Chi sono i soggetti a rischio e quali sono i fattori da considerare?
La malattia di Alzheimer colpisce principalmente soggetti in età avanzata, superiore ai 70 anni, ma alcuni pazienti si ammalano in età giovanile, prima dei 60 anni e, talvolta, anche molto giovanile. Come la prima paziente descritta da Alois Alzheimer.
In una piccola quota di pazienti esiste una chiara familiarità con la malattia presente in tutte le generazioni. Queste sono le forme di malattia di Alzheimer familiare causate da geni alterati e con trasmissione autosomica dominante. Al momento, conosciamo oltre 500 mutazioni a carico dei geni della presenilina 1, presenilina 2 e Precursore dell’Amiloide (PS1, PS2, APP) capaci di determinare una forma ereditabile di malattia.
Per fortuna queste forme sono molto rare, probabilmente meno del 5% di tutta la popolazione di malati di malattia di Alzheimer. I membri di queste famiglie sono soggetti a rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer con probabilità molto più alta rispetto alla popolazione generale.
Nella popolazione generale, che non ha rischi genetici di ereditare la malattia, dobbiamo considerare quali fattori di rischio i fattori cardiovascolari, quali l’ipertensione, il diabete, l’obesità. Questi fattori probabilmente favorendo una sofferenza generica del tessuto nervoso possono permettere alla malattia di Alzheimer, se compare, di presentarsi clinicamente precocemente e con evoluzione più rapida.
Cosa succede al cervello?
Nel 1907, Alois Alzheimer descrisse il primo paziente con demenza pre-senium, Augustine D e il suo allievo, il neurologo italiano Perusini fornì la prima descrizione autoptica di un cervello di persona con la malattia, riportando la presenza di inclusioni anormali all’interno del citoplasma dei neuroni successivamente noti come grovigli neurofibrillari (NFT) oltre alle placche amiloidi, formate dalla aggregazione di frammenti di una glicoproteina di membrana, la beta amiloide.
Il processo patologico esordisce, nelle forme classiche, a livello dell’ippocampo e della corteccia entorinale, causando il disturbo della memoria. Successivamente il processo si estende in particolare alla corteccia temporale e parietale, determinando una progressiva atrofia corticale e la perdita progressiva delle funzioni cognitive.
Come rallentare l’avanzare della malattia?
Sono in commercio da alcuni anni 4 farmaci, Donepezil, Rivastigmina, Memantina, Galantamina per i quali è stata provata da ampi studi scientifici la capacità di rallentare l’evoluzione clinica della malattia.
Non esistono farmaci capaci però di arrestare la progressione né di far recuperare le funzioni perse.
Alcuni studi mostrano come la riabilitazione cognitiva, anche associata a training motorio, può rallentare l’evoluzione di alcuni aspetti della sintomatologia.
Negli ultimi anni sono stati proposte modalità di riabilitazione cognitiva anche con piattaforme virtuali quali i Serious Games (SGs), giochi per computer progettati, come indica il loro nome, per scopi diversi da quello ludico e sono stati utilizzati in molti contesti (ad esempio, l’istruzione, la formazione, la simulazione, il fitness…).
L’utilizzo di queste piattaforme innovative non sembra incontrare difficoltà anche in soggetti anziani e alcun i studi pilota hanno mostrato la possibile efficacia del training cognitivo con piattaforme virtuali per mantenere e potenziare le abilità cognitive in soggetti con forme iniziali di malattia di Alzheimer.
L’utilizzo di queste tecnologie, presenta il grande vantaggio di poter rendere usufruibile la riabilitazione a distanza al riabilitatore e, quindi, accessibile ad un ampio numero di persone.
Quali sono le novità terapeutiche contro l’Alzheimer?
Poiché l’ipotesi amiloide è stata la protagonista indiscussa dello scenario AD fino all’ultimo decennio, la maggior parte delle terapie mira alla modulazione del carico di placche amiloidi attraverso due strategie:
- Ridurre la produzione.
- Aumentare la clearance di beta amiliode (Aβ).
La clearance di Aβ è mediata dal sistema immunitario, quindi gli anticorpi Aβ (IgG) possono attivare la microglia per rimuovere Aβ. Sono state testate sia l’immunizzazione attiva che quella passiva, ma ancora non abbiamo risultati che permettano di prevedere la loro applicabilità nella clinica, nel trattamento dei pazienti affetti né nella prevenzione della comparsa della sintomatologia nei soggetti a rischio.
La mancanza di successo degli studi mirati a contrastare la beta amiliode (Aβsta) determina uno spostamento delle terapie per AD verso un approccio multitarget. L’evidenza emergente suggerisce che l’AD è dovuto a più fattori, quindi il trattamento di un solo meccanismo è probabilmente insufficiente. Alcune sperimentazioni in corso sono dirette verso un modulatore con effetti pleiotropici, capaci di agire simultaneamente su amiloide, tau-fosforilazione, sistema colinergico.
Altri studi esplorano l’azione di farmaci anti-infiammatori, o la possibile terapia con cellule staminali e la stimolazione cerebrale profonda.
Informazioni dettagliate e continuamente aggiornate su ogni trial clinico attuale e precedente sulla malattia di Alzheimer sono disponibili sul sito web ClinicalTrials.gov.
Su cosa si basa la “terapia genica”?
La terapia genica è una tecnica sperimentale che utilizza i geni per trattare o prevenire le malattie. Questa tecnica potrebbe consentire di trattare un disturbo inserendo un gene nelle cellule del paziente o modificando un gene del paziente invece di usare farmaci o interventi chirurgici. I ricercatori stanno testando diversi approcci alla terapia genica, tra cui:
- Sostituzione di un gene mutato che causa la malattia con una copia sana del gene.
- Inattivazione, o “eliminazione”, di un gene mutato che funziona in modo improprio.
- Introduzione di un nuovo gene per aiutare a combattere una malattia.
Sebbene la terapia genica sia un’opzione terapeutica promettente per una serie di malattie (comprese malattie ereditarie, alcuni tipi di cancro e alcune infezioni virali), la tecnica rimane rischiosa ed è ancora in fase di studio per assicurarsi che sia sicura ed efficace. La terapia genica è attualmente in fase di sperimentazione solo per malattie che non hanno altre cure.
Recentemente è iniziata una sperimentazione con terapia genica in una rara malattia neurodegenerativa che causa demenza, la corea di Huntington, utilizzando un oligonucleotide antisenso potenzialmente capace di ridurre la produzione della proteina anomala che causa la malattia.