Bacche di goji, semi di chia (Salvia hispanica), cranberry, fave di cacao, bacche Inca, more di gelso bianco, bacche di aronia, bacche di maqui, alchecehngi, pitaya. Sono questi i “superfrutti” e “supersemi” oggi più noti e consumati. Spesso a dispetto del costo.

Si calcola che la notorietà media di un “superfrutto” abbia una durata di circa 4-5 anni. Ma il tema, davvero rilevante a livello di popolazione, va affrontato rispondendo al quesito di base: che cos’è, o che cosa dovrebbe essere un superfrutto?

La rivista AP&B ha intervistato Renato Bruni, professore associato di Biologia farmaceutica presso il Dipartimento di scienze degli alimenti e del farmaco dell’Università di Parma, che ha di recente dato alle stampe un volume esauriente sui temi più controversi relativi all’utilizzo delle piante per fini salutistici.

Abbiamo riportato alcune domande partendo dal primo caso storico di superfrutto: il pomodoro.

«Il primo superfrutto» spiega Bruni «è stato proprio il pomodoro, ingrediente fondamentale delle “Tomato Pills”, molto in voga negli Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento. Fu un successo clamoroso. Non solo: in anni appena precedenti un medico molto quotato, tale John de Sequeyra, arrivò a sostenere che, consumando pomodori, si poteva anche non morire mai. Teniamo conto che il pomodoro ebbe anche un testimonial d’eccezione, come il presidente Thomas Jefferson».

Questi aneddoti ricordano casi simili, ben più recenti. Anche oggi, al “superfrutto”, viene spesso attribuita dalla vulgata popolare la capacità di risolvere vari problemi di salute.

«Con una differenza. Oggi la scienza è progredita e sappiamo quantificare. Di fronte a un’ipotesi di superfrutto, oggi si punta a definire “quanto” possa essere davvero benefico, in un percorso graduale che prevede, in prima istanza, studi di base e poco costosi, i cui risultati sono utili a valutare ulteriori investimenti. È a questo punto che si passa a sperimentazioni più impegnative, per ampiezza e costi, su animali e uomini, cercando conferme più robuste degli attesi attributi salutistici.»

Un approccio valido anche per il “superfrutto” pomodoro?

«Certamente. Per esempio, oggi sappiamo che, il consumo regolare di pomodori, specie se cotti (e soprattutto se conditi con olio extravergine di oliva), si associa ad una riduzione del rischio di tumore alla prostata per un 55enne di circa il 2% nell’arco di vent’anni. Ricordiamo, però, che il rischio non è comunque uguale per tutti: l’assetto genetico lo fa infatti oscillare in modo molto ampio. Ma il vero nodo è l’assenza di regole condivise che, insieme alla tendenza a una generalizzazione, trasformano un beneficio specifico, associato a un organo (in questo caso la prostata), in un beneficio generico, percepito erroneamente come panacea.

In assenza di regole condivise, chiunque può attribuire la dote “super” a qualsiasi frutto. Un limbo che non giova alla chiarezza, perché “super” resta un prefisso sfuggente e aleatorio. Esempio: potremmo dichiarare che kiwi o açaì sono “super”, perché 100 grammi assicurano il 100% del fabbisogno giornaliero di vitamina C, ma sarebbe un’affermazione potenzialmente fuorviante. E mi spiego: qualcuno potrebbe essere indotto a credere che il consumo di un superfrutto al giorno sia sufficiente per garantire una dieta sana. Si chiama “effetto alibi”, la cui rilevanza è purtroppo confermata da non pochi studi. Secondo esempio: nessuno definisce “super” alcuni vegetali, nonostante possano vantare specifici claim nutrizionali riconosciuti, come “fonte di” o “ricco di” vitamine e minerali.»

A fare la differenza sono dunque i risultati della ricerca?

«Senz’altro. Già dal 2007 l’Unione Europeaha vietato l’uso del termine “superfood” sugli imballaggi, a meno che sia sostenuto da prove scientifiche solide, che permettano di ottenere, per quell’alimento, un vero e proprio “health claim”. A differenza dei claim nutrizionali, infatti, gli health claim vengono approvati (da EFSA, European Food Safety Authority, n.d.r.) soltanto dopo la presentazione (e accettazione) di ricerche condotte su persone sane, da cui emerga l’evidenza di un’azione positiva sulla salute, per esempio nel sostegno di funzioni fisiologiche. Per i superfrutti non è stato possibile autorizzare tali claim per diversi motivi: perché gli studi non sono considerati sufficienti, la validazione è ancora in fase preliminare, o i risultati sono statisticamente troppo deboli; oppure, gli effetti sono positivi ma non possono essere estesi alla popolazione generale.»

Dal punto di vista della nutrizione nel suo complesso, però, questi alimenti hanno un ruolo. Qual è?

«Si può usare una metafora sportiva: ad avere importanza non è la presenza di un’eventuale “stella” nella squadra. I buoni risultati vengono se l’intero team è solido. È un concetto che va rafforzato, quando si parla di nutrizione corretta alla popolazione generale: l’assunzione di un singolo nutriente non può determinare di per sé una riduzione del rischio di qualche malattia. Basti pensare che, per quanto riguarda la mortalità per tutte le cause, la riduzione del rischio associata a un singolo elemento della dieta è molto inferiore a quella associata a una qualsiasi combinazione di 5 porzioni giornaliere di frutta e verdura. È la dimostrazione più lampante di quanto conti il gioco di squadra, ovvero dieta e stile di vita.»

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